LECCO – Almeno tre sono gli ingredienti per uno spettacolo godibile e di spessore. Anzitutto, un testo scorrevole, vicino alla realtà quotidiana di tutti noi, capace di illuminare zone d’ombra e il ribollire di inquietudini sottese. È il caso di Lacci (Einaudi 2014), breve romanzo di Domenico Starnone, uno dei più importanti scrittori italiani di oggi (e a detta di alcuni potrebbe esserci lui dietro il mistero di Elena Ferrante). Occorre inoltre un istrione, come Silvio Orlando, a cui tiene testa l’ottima Vanessa Scalera. Aggiungi poi lo sguardo lucido di Armando Pugliese (attore di lunga esperienza e qui regista), impegnato nel difficile compito di trasferire sulla scena pagine letterarie. L’effetto è di sicura qualità, molto apprezzato dal pubblico lecchese, lo scorso 23 gennaio.
Un salotto borghese: stucchi un po’ démodé, scaffali di libri, sedie, tavolini. Vi regna l’ordine e la geometria delle linee, a nascondere un mondo che lineare non è, quello dei rapporti famigliari. Lui, lei e due figli, un amore travolgente che declina poi nell’abitudine. A descriverlo è Vanda, che ci offre il suo punto di vista sull’improvvisa tragedia dell’abbandono, quando il marito Aldo, invaghito di una giovane, lascia il tetto coniugale. Salvo poi tornare anni dopo, per onorare i suoi impegni di padre. Ma nel frattempo il vuoto ha scavato solchi incolmabili.
Ritroviamo i due dopo trent’anni, con il peso dell’età, le idiosincrasie di una coppia stanca, le maniere brusche di lei, l’ironia disarmata di lui, con punte di comicità. Il momento non è per nulla casuale: la casa è stata messa a soqquadro. La normalità trascinatasi per tanto tempo, deve ora fare i conti con l’imprevisto e mentre si fa la conta dei danni e si ricompongono i cocci, viene a galla con prepotenza il mondo spezzato dei sentimenti.
È ora il marito a confessarsi, e Orlando ne è superbo interprete, attento alle sfumature: sornione e indolente, ma anche confuso, abulico e infantile. Ricorda il fatto-cerniera della sua vita, quando, liberatosi della zavorra famigliare, si era riscoperto amante, un “io”, prima soffocato dalle impellenti necessità del “noi”. Ma poi, il rimorso e la decisione del ritorno, anche a costo di sacrificare “per il bene dei figli” la propria felicità (sigillata nelle foto-ricordo, dentro una scatola blu, unica macchia di colore nella scenografia).
Chi è la vittima e chi il carnefice? I confini sono labili, perché si è instaurato un reciproco gioco al massacro, costruito su perfide torture quotidiane, malcelate sotto la coltre della normalità. E di questo veleno si sono nutriti anche i figli, che si vendicano spietati simulando il furto: rovesciano così l’ordine soffocante della finta armonia e tolgono ai genitori quanto hanno di più caro (le foto della scatola blu e il gatto).
In questo desolante inferno contemporaneo, nulla è ciò che sembra. Sotto i colpi di una fredda e terribile realtà, la famiglia ideale soccombe, o forse non è mai esistita. Dunque le relazioni non contano? Starnone risponde con la metafora dei lacci. Ci dovrebbero permettere di calzare meglio la scarpa e di avere un passo più sicuro, sempre che li sappiamo legare nel modo giusto, perché non siano costrittivi, come accade nell’eloquente copertina del romanzo. Analogamente i lacci-legami famigliari possono diventare tentacoli soffocanti, che avvinghiano i sentimenti in un grigiore raggelato. Una visione pessimistica, ma anche grazie allo sguardo comico-dolente di Silvio Orlando, questa fotografia della famiglia contemporanea al collasso assume una sua grazia leggera.
Gilda Tentorio
Fotografie di Marco Caselli Nirmal