RUBRICA PSICOLOGIA & DINTORNI:
5-LA PRIGIONE DI STANFORD

ZimbardoLECCO – Nel 1971 l’Università di Stanford, a Palo Alto, California, fu teatro di uno storico esperimento di psicologia. Il professor Zimbardo, riprendendo la teoria della de-individuazione di Gustave Le Bon, diede il via a questa importantissima esperienza, le cui ricadute sono ancora oggi di forte attualità. Psicologia e potere intrecciano i loro percorsi nella Prigione di Stanford.

Tramite un annuncio su un giornale locale, egli trovò alcuni volontari, spiegando loro che lo studio sperimentale si sarebbe occupato degli effetti della vita in prigione. L’obiettivo era scoprire quali conseguenze psicologiche si accompagnassero al fatto di ricoprire il ruolo di prigioniero o di guardia. Per fare ciò, Zimbardo e i suoi collaboratori costruirono una piccola prigione nei locali sotterranei dell’università, allo scopo di osservare i comportamenti di chi vi stava dentro. I candidati, 70 in tutto, vennero intervistati e sottoposti a una batteria di test di personalità, per trovare e scartare coloro che avessero avuto problemi psichici, oltre che malattie e precedenti criminali. Di questi, ne vennero selezionati 24, un campione accomunato dal desiderio di guadagnare 15 dollari al giorno in cambio della loro partecipazione: erano ragazzi normali, in ottima salute, intelligenti, di ceto medio, studenti. Costoro vennero divisi in maniera arbitraria in due gruppi: 12 guardie e 12 prigionieri. In questo momento iniziale dell’esperimento non c’era differenza tra i due gruppi, dato che erano stati composti semplicemente lanciando una moneta.

L’unico luogo accessibile ai prigionieri era il cortile, ossia un corridoio chiuso alle estremità, in cui potevano camminare e fare esercizi come nell’”ora d’aria” del vero carcere. Quando dovevano andare in bagno venivano loro bendati gli occhi per evitare che scoprissero possibili vie di fuga. Nel cortile, così come in altri locali della cella, erano state poste delle telecamere, per poter monitorare tutto quello che succedeva all’interno. Era presente anche una piccola stanza che fungeva da cella di isolamento, senza finestre né orologi.

zimbardo prigione stanford

Ogni prigioniero, appena giungeva sul luogo dell’esperimento, veniva perquisito e cosparso di una sostanza contro germi e pidocchi, e rasato a zero: due eventi umilianti che servivano a ribadire il contesto coercitivo in cui essi entravano. Uno per uno ricevevano un’uniforme carceraria, che dovevano indossare senza biancheria intima. Alla caviglia destra ognuno di loro aveva sempre una pesante catena chiusa da un lucchetto: una simulazione funzionale di una prigione a tutti gli effetti. Lo scopo di questa minuziosa messa in scena era quello di marcare il più possibile la situazione di tinte opprimenti e totalizzanti. Ciascuno di loro poteva essere chiamato solo con il suo numero identificativo e poteva riferirsi a sé stesso e agli altri prigionieri solo con esso; gli sperimentatori cercavano infatti di de-umanizzare i detenuti, rendendoli assolutamente anonimi.

Le guardie non ricevettero alcun addestramento specifico, erano libere di fare tutto quello che avessero ritenuto necessario. Crearono così le loro regole e le applicarono al fine di mantenere l’ordine. Indossavano un’uniforme, portavano un fischietto intorno al collo e possedevano un manganello. Avevano, inoltre, degli occhiali da sole a specchio, che impedivano ai detenuti di poter vedere i loro occhi e leggere le loro emozioni, contribuendo così a rendere anonimi anche i secondini. Le guardie avevano turni di 8 ore l’uno, mentre i prigionieri rimanevano giorno e notte nella prigione di Stanford.

I prigionieri subivano numerose conte: venivano svegliati di notte e gli veniva chiesto il numero identificativo, in modo da farlo imparare loro a memoria. Tali eventi davano la possibilità alle guardie di poter esercitare il loro potere, così come le flessioni, usate come punizioni per la trasgressione delle regole carcerarie. Entrambi i gruppi erano inizialmente disorientati rispetto ai loro nuovi ruoli, ma ben presto qualcosa iniziò a cambiare…

Una delle guardie iniziò a rendere più pesanti i momenti punitivi, decidendo arbitrariamente di salire con un piede o addirittura con entrambi sulla schiena di chi stava facendo le flessioni. Questo fece scoppiare una rivolta tra i detenuti, che si barricarono nelle celle spogliandosi dei travestimenti che portavano. Zimbardo e colleghi non erano preparati ad un evento del genere. Le guardie erano molto arrabbiate e frustrate, dato che i prigionieri ribelli avevano iniziato a prendersi gioco di loro; chiamarono quindi i loro colleghi fuori turno e decisero di rispondere tutti insieme con le maniere forti; presero un estintore e ne spruzzarono il contenuto dentro le celle, fecero irruzione all’interno, portarono fuori i prigionieri e iniziarono ad insultarli. Due di loro furono addirittura portati in cella di isolamento.

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Tramite il digiuno forzato ed alcuni trucchi psicologici, che consistevano di dare privilegi ad alcuni prigionieri mentre altri scontavano delle punizioni, senza però alcuna motivazione, le guardie riuscirono a spezzare la solidarietà tra i detenuti. Il loro gruppo, di rimando, diventava più forte e coeso. Le angherie che venivano perpetrate diventavano sempre più pesanti, in un climax di violenza e sopraffazione: impedire di andare in bagno, compiere lavori degradanti e ripetitivi, come ad esempio pulire il bordo del water a mani nude.

Ognuno dei due gruppi si calava sempre di più, giorno dopo giorno, nella parte assegnata. Un prigioniero iniziò a manifestare disturbi emotivi acuti, caratterizzati da pensiero disorganizzato, pianto incontrollato e accessi d’ira. Venne liberato in quanto era diventato incontenibile e non smetteva di urlare agli altri che non sarebbero mai usciti di lì.

La pressione fu talmente alta che uno dei ragazzi incarcerati rifiutò il cibo e non volle ricevere visite. Per tutta risposta uno dei secondini fece cantare agli altri prigionieri cori offensivi verso costui. Lo fecero tutti, senza protestare, senza battere ciglio, come una sola voce. Si sentivano completamente incapaci di opporsi, inermi. Zimbardo dovette intervenire per evitare il crollo psicologico del prigioniero denigrato.

L’esperimento aveva cambiato la percezione della realtà dei partecipanti di entrambi i gruppi. Si trattava di una “prigione psicologia”, ancora prima che fisica. Sebbene non tutte le guardie stessero attuando comportamenti ostili, il computo delle crisi emotive registrate tra i detenuti arrivò a quattro, compreso un caso di una forte eruzione cutanea di chiara genesi psicosomatica. Ci fu un estremo tentativo di ribellione, subito soppresso dai secondini con la punizione della cella d’isolamento.

Vista l’impossibilità di riportare la situazione alla normalità, Zimbardo e colleghi dovettero interrompere l’esperimento in anticipo. Le ignobili angherie delle guardie erano arrivate pure ad avere uno sfondo sessuale, e ad essere fatte di notte, nella speranza di non essere viste dalle telecamere degli sperimentatori.

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Cosa è successo nella Prigione di Stanford? Nonostante si trattasse di una simulazione, le identità dei partecipanti vennero plasmate dalla situazione, rimodellate. La propensione ad assumere condotte lesive della dignità umana venne facilitata dalla de-individuazione a cui erano stati sottoposti i partecipanti, con la spoliazione dei tratti identitari. Questo meccanismo di anonimizzazione influenza il funzionamento cognitivo, limitando le funzioni di pianificazione del comportamento, focalizzando l’attenzione sul “qui e ora”, riducendo il senso di responsabilità personale. La de-individuazione agisce anche a livello neurofisiologico, comportando una riduzione dell’attivazione delle aree prefrontali e un incremento dell’attività del sistema limbico, soprattutto dell’amigdala. L’altro fattore che ha reso più probabili le condotte lesive nella prigione simulata fu il conformismo, che può essere sia di tipo informazionale (in un contesto nuovo non si attivano schemi di azione già sperimentati, il soggetto utilizza quindi gli altri per regolare il proprio comportamento) che normativo (il soggetto agisce secondo le norme sociali del gruppo, pur non condividendole, per soddisfare il proprio bisogno di approvazione e affiliazione). Il contesto ambiguo era quindi la variabile di maggior importanza rispetto a quelle di personalità pre-esistenti. Zimbardo, dopo questo esperimento, formulò l’Effetto Lucifero: le situazioni determinano reazioni aggressive più che le influenze disposizionali. Una conclusione che contribuisce tutt’ora in maniera massiccia alla ricerca psicologica riguardo alla violenza, al potere e al comportamento umano all’interno di istituzioni totali.

Alberto Zicchiero, psicologo
Iscrizione Opl n. 03/17337

 

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