LA CHIMERA DELLA GIAGNONI
COMMUOVE UN TEATRO CALATO
IN UN ‘600 POCO MANZONIANO

Favretto - Giagnoni 1LECCO – L’attrice Lucilla Giagnoni ha riportato a Lecco il Racconto di Chimera al Teatro della Società, in una veste rinnovata. Lo spettacolo (produzione Ctb Teatro Stabile di Brescia) è tratto dal capolavoro dello scrittore Sebastiano Vassalli scomparso lo scorso luglio. Il romanzo La Chimera, 1989 (Premio Strega) suscitò ampi dibattiti, anche per la volontà dichiarata dell’autore di “andare oltre Alessandro Manzoni”: se lo scrittore dei Promessi Sposi ritrae il secolo del Seicento con l’occhio rivolto al suo Ottocento e alla speranza di un Paese finalmente unito, più illuminato e giusto, Vassalli invece si immerge totalmente in quel mondo di violenze e prevaricazioni, per mostrarci in controluce il nostro oggi. Più che risposte, Vassalli pone domande, e su questa linea si è mossa anche la rilettura della Giagnoni, in un lavoro teatrale di grande partecipazione e passione civile.

C’è solo lei sulla scena, fasciata in un corsetto, indossa una veste double-face, bianca come la purezza e l’innocenza, o rossa come il sangue e la colpa. Un gesto, una smorfia, un timbro vocale, sono sufficienti per scivolare dal piano del racconto a rappresentare i caratteri dei diversi personaggi, in un monologo che è insieme narrazione e performance.

Favretto - Giagnoni 2La storia di Antonia inizia nel 1590: cresce in un convento del novarese insieme ad altri “esposti”, finché la ruota della fortuna sembra girare a suo favore, quando due buoni contadini la prendono con sé nel villaggio di Zardino, presso il fiume Sesia. Il racconto si anima allora di tante figurine di paese: il prete, le liti di cortile, le amichette, i giochi. Ma fra poco tutto cambia. Il mantello della Gignone ora è rosso: a tuonare con tono solenne e irato è don Teresio, il nuovo sacerdote, che proibisce il Carnevale, feste, balli, fiere, scagliando terribili maledizioni contro i reprobi che trasgrediranno le regole, in sintonia con le decisioni del Concilio di Trento.

Gli scherzi dell’infanzia lasciano il posto ai toni plumbei della tragedia e la vita di Antonia sarà segnata da una rovinosa caduta verso la violenza. Il trapasso è improvviso. Biagio, lo scemo del paese, a cui Antonia è affezionata per il suo buon cuore, viene punito per le sue “mattane” con la castrazione e tutti mormorano che la colpa è di Antonia, rea di avergli messo il diavolo in corpo. La ragazza è troppo bella, orgogliosa e libera, e nella comunità serpeggia l’invidia. Piccoli episodi e “scandali”, deformati dalla becera superstizione, si gonfiano in sospetti di “eretica pravità”. Mancano prove concrete per appellarsi alla giustizia umana, e i paesani, guidati dalla confraternita degli incappucciati, si rivolgono al Santo Uffizio di Novara. L’inquisitore non aspetta altro: un processo pubblico contro la “strega” gli spianerà la strada a una brillante carriera.

La trappola è scattata. Antonia, fino ad allora fanciulla ingenua, vittima di maldicenze e livori vendicativi legati alla sua straordinaria bellezza, diventa vittima della Storia. Il punto di svolta si riverbera anche sulla scena, con proiezioni e ombre inquietanti (dita artigliate, chiazze scarlatte, sagome lunghe, braccia spalancate che non hanno nulla del salvifico abbraccio di Cristo ma si aprono al delirio del potere e della sopraffazione…).

Il microcosmo paesano si trasfigura in una “Apocalisse disperante”, come l’ha definita il critico Carlo Bo. La trovatella, scampata all’inferno della vita degli ultimi, conosce ora l’inferno sofisticato dei Grandi, che si esprime nelle atrocità della tortura. Annientata nel fisico e nel morale, reagisce però con una forza che le carte del processo definiscono “sovrumana”. E l’attrice segnala questa metamorfosi con un urlo lunghissimo, ululato con furore: “Slegatemi!”.

Favretto - Giagnoni 3È la resa dei conti. In una miscela di toni ben dosata, alle domande dell’Inquisizione (“Hai conosciuto il diavolo nei sabba?”, “Ti sei unita carnalmente a lui?”) date in forma secca e perentoria, ma ridicole perché si reggono sul nulla, si alternano le risposte di Antonia, spezzate dalla commozione eppure taglienti. La violenza e il dolore la trasformano in anima resistente e ribelle: sotto i nostri occhi sta diventando un simbolo. La condanna prevede che la “strega” sia bruciata al suo paese e la data è fissata per un afoso 11 settembre 1610, coincidenza che crea un cortocircuito inquietante di memoria con la data-simbolo del nostro recente passato.

Il silenzio in sala è quasi irreale. Non un colpo di tosse, non un bisbiglio. La tensione è palpabile, e il racconto risulta così vivido che sembra di vederlo. Domina il rumore della voce degli altri: la folla inferocita grida “Dateci la strega!”, mentre assalta la carrozza in viaggio per Zardino. Antonia li guarda “come fossero pesci in una boccia di vetro” e lampeggia il suo ultimo pensiero: “la vita è uno spreco di energia insensata, una mostruosa malattia che scuote il mondo”. La dissonanza è fortissima e la domanda agghiacciante, sottesa agli ultimi intensi minuti dello spettacolo è: chi è il vero mostro? Quella creatura innocente legata a un palo che avvampa in una fiammata o la folla di pellegrini che esplode in giubilo, sicuri di aver annientato con lei le proprie disgrazie? Un coup de théâtre chiama in causa proprio il pubblico: mentre la Giagnoni in rosso vortica su se stessa, come presa dalla vertigine della festa, i riflettori si accendono su di noi, per destarci all’oggi. Quel Seicento, così lontano, è tanto vicino. Dopo applausi lunghi e commossi, Lucilla torna in scena per mandare un saluto affettuoso a Sebastiano Vassalli e dedicare lo spettacolo «a tutte le donne che oggi, vicino o lontano da noi, subiscono le stesse persecuzioni».

Gilda Tentorio
Foto di scena di Umberto Favretto