RELIGIONI/DON GIOVANNI MILANI MEDITA NELLA DOMENICA DELLE PALME

Questa domenica (che un tempo era detta “Dominica passionis in ramis palmarum/olivarum” domenica di passione nei rami delle palme/degli olivi), conosce due liturgie: quella “nel giorno” che narra la cena di Betania, dove il gesto di Maria, sorella di Lazzaro, che unge i piedi di Gesù con quel tanto prezioso profumo, dà modo al Signore di dichiararne il segno profetico della propria sepoltura; poi quella, di maggior richiamo popolare, che ci mostra (in Giovanni con singolare sobrietà) la profezia regale di Gesù espressa, non con parole, ma con quella singolare cavalcata sull’asinello verso il tempio.

Leggiamo i pochi versetti del vangelo della seconda: la liturgia delle palme. Solo Giovanni parla delle palme che pure, non impropriamente, hanno dato nome alla domenica e diremmo anche alla festa che dev’essere intesa bene: non è infatti una festa di allegria spensierata, ma una festa nella vibrazione profetica del segno di dichiarata regalità di Gesù, con tutti i richiami antichi, e ancor più nel senso di universalità alluso dalla dignità regale del Signore.

Solo il IV vangelo, si ricordava – benché presenti il testo narrativamente più sobrio – dice delle palme regali; la cura dell’evangelista non è ovviamente a specificare la narrazione, ma sommamente a richiamarne il significato regale, tanto da farsi sobrio nel racconto ma a voler sottolineare come i discepoli avessero inteso il segno di profezia del Signore, solo dopo la sua glorificazione: qui il vibrante rilievo di Giovanni.

Ricordiamo che, per Giovanni, la gloria di Gesù si esprime in un tutt’uno sulla croce e nella risurrezione: la gloria è sommamente il mostrare l’amore sconfinato di Dio disposto a sacrificare per l’uomo il suo proprio unico Figlio, pure, in quel sacrificio, a vincere il male e così donare vita piena, vita che vince ogni morte.

Il particolare che precisa le palme, rispetto a Marco e Matteo che dicono solo più genericamente di fronde e rami è in ordine alla regalità profetica colta dalla folla, che pur in una cavalcata di un dimesso ciuchino sa, richiamando antica Scrittura, scorgere la grandezza mite e benevola del “re” che viene acclamato come tale nell’”osanna” e con il titolo davidico di “re d’Israele”.

La narrazione della cena di Betania, che immediatamente precede il nostro brano, aiuta a leggere meglio anche quanto ci è dato qui: là, la festa diviene profezia di morte, pur onorata di unzioni allusive a consacrazione; qui, la mite regalità acclamata, è preludio significativo alla gloriosa passione di croce, non vilipendio di morte, ma sacrificio innalzato a Dio per la regale (universale) vittoria sulla morte.

 

Don Giovanni Milani