L’obsolescenza programmata o pianificata, ossia la pratica delle aziende di accorciare volutamente la vita dei loro prodotti per creare nuova domanda in un tempo più breve, risale agli anni ’20 ed ebbe inizio quando un gruppo di imprese produttrici di lampadine si riunì nel cosiddetto Cartello Phoebus, per stabilire alcuni standard tecnici comuni. Tra questi venne imposta una riduzione della durata massima della vita delle lampadine, che venne portata da 2.500 a 1.000 ore.
Lo svantaggio di questa pratica immediatamente visibile dal consumatore è senza dubbio quello che colpisce le sue tasche nel momento in cui il prodotto che aveva acquistato (si parla soprattutto di elettrodomestici) smette di funzionare molto prima di quanto avesse preventivato. Nella maggior parte dei casi, quando ciò accade la prima reazione è quella di portare l’oggetto in questione dove lo si è acquistato, per farlo riparare. Ma è in quel momento che scatta la seconda fase del meccanismo dell’obsolescenza programmata: i pezzi di ricambio non ci sono e, anche nel caso in cui ci siano, la riparazione viene apertamente sconsigliata dai negozianti, in quanto sconveniente rispetto all’acquisto di un prodotto nuovo. La pubblicità completa poi l’opera inducendo il consumatore a cedere e comprare il prodotto nuovo, presentato come più performante, più esteticamente bello, più ecologico, insomma, migliore di quello che si aveva prima. Ed ecco che il ciclo ricomincia.
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