LECCO – La sharing economy non ci toglie dalla crisi economica: il caso del book crossing. Oltre alla moda della condivisione, partire dal funzionamento della biblioteca. Una riflessione dell’ex consigliere lecchese, Sandro Magni.
E’ molto di moda la sharing economy. Non più tardi di una o due settimana fa, a Milano, una importante rivista consumerista, ha organizzato una fiera della sharing economy. E ha squadernato numeri di fatturato e percentuali di PIL, evidenziandone le tendenze, per i prossimissimi anni, ad una crescita salvifica. Un modo per superare la crisi.
Mi permetto di argomentare che così non è. Anzi, la presenza della così detta economia del dono o della condivisione, altri nomi più nostrani, accattivanti e altisonanti, per le nostre coscienze, così pregne di convinzioni etiche, religiose o para-religiose, è invece il sintomo di un perdurare della crisi o quantomeno di una certa ristrutturazione economica in atto. Che però dalla crisi non ci smuove.
E’ questa sicuramente, tra le altre, una crisi da domanda, accentuata da politiche di austerity, ma sicuramente innestata anche su una sovra-produzione di beni individuali, ovvero da un meccanismo di saturazione dei mercati. Di tanti mercati. In parole più semplici siamo di fronte a beni ai quali da una parte accediamo in proprietà: il mio telefonino, il mio televisore, la mia automobile, ma che ormai trovano di fronte a sé un mercato saturo che non viene rilanciato dalle moltissime incentivate rottamazioni o programmate e originarie obsolescenze, né dalla moltiplicazione, congestiva tra l’altro, degli oggetti o dei beni materiali.
Parte da questa situazione, e in particolare dai consumatori, l’idea di utilizzare quegli oggetti condividendoli con altri. Uscendo da una logica puramente proprietaria. E’ in fondo un modo per “ottimizzare” l’utilità degli stessi. Idea che viene ripresa dalla imprenditoria diffusa che lancia piattaforme telematiche a scopo di guadagno e profitto. Ma questo guadagno e profitto non genera più occupazione, anzi “libera” lavoro che in tanti situazioni diventa lavoro gratuito, sfruttamento volontario allo stato puro.
E tuttavia l’effetto congiunto di tutte queste variabili in gioco produce non un aumento della domanda complessiva ma quello di un “sacrosanto”, e tuttavia pernicioso, risparmio, che non viene rimesso in circolo, ma che rimane fermo nelle famiglie, per rispondere ad esigenze precauzionali, legate a un progressivo e annoso depauperamento patrimoniale. Oppure investito in operazioni finanziarie e speculative.
Tutto questo vuol dire che allora della sharing economy non se ne deve fare niente o che se ne debba rifiutare in blocco le opportunità? Direi di no; basta distinguere. Dove è espressione di sfruttamento mercantile e dove invece è espressione di una autentica economia di condivisione.
Direi che è espressione di sfruttamento in piattaforme come quella di Uber e simili, o in quella partecipazione diffusa coinvolta a volte anche inconsapevolmente nella progettazione robotica; non lo è se invece è espressione di un decentramento partecipativo come nel caso del car poling o della casa “per to per” come opportunità turistica, non lo è quando poi le piattaforme eventuali che ci stanno dietro sono pubbliche e gratuite. Non lo è in taluni casi quando non è un doppione dell’uso di beni materiali, come nel caso di un car sharing urbano, che non sia concorrenziale nei confronti dei taxi, ma che permetta un uso più razionale e comunitario di automobili poco utilizzate esclusivamente da proprietari individuali, ridotte esclusivamente o prevalentemente ad essere simboli di status o di distinzione sociale..
Lo è invece quando diventa oggetto di sfruttamento come nei casi già descritti di lavoro volontario o ultra sottopagato. Lo è invece quando viene introdotta meccanicamente come fa il nostro Comune di Lecco nel caso del bike sharing, e nel caso anche del book crossing (libri in circolazione); nel primo caso perché si potrebbero fare altre politiche sulla mobilità e per l’uso della bicicletta più efficaci e efficienti, insomma non inutilmente costosi. Nel secondo caso perché è inutile duplicare una funzione antichissima come quella della biblioteca. Differenziamo la biblioteca e facciamola lavorare meglio. Evitiamo che attraverso il book crossing la nostra biblioteca civica faccia tagli per l’acquisto di nuovi libri.
Non se la prenda l’ottima assessore alla cultura. Non è lei il bersaglio. Il bersaglio è immaginare la originaria cooperazione sociale come se fosse slegata da un comando sociale.
Sandro Magni