LECCO – Nell’ambito dell’operazione “Marchio sfrenato”, coordinata dal Sostituto Procuratore di Vicenza, Luigi Salvadori, il Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Vicenza ha smascherato un’articolata organizzazione criminale che – nel solo periodo che va dal 2013 ai primi mesi del 2015 – ha evaso il Fisco per decine di milioni di euro nel settore del commercio di metalli preziosi.
Nei giorni scorsi, i finanzieri di Vicenza, in collaborazione con il Nucleo di Polizia Tributaria di Matera e di altri dieci Reparti del Corpo di diverse regioni, hanno eseguito un centinaio di perquisizioni personali e locali, in 13 province (Vicenza, Milano, Roma, Bergamo, Lecco, Como, Ascoli Piceno, Arezzo, Bari, Napoli, Caserta, Matera e Potenza) nei confronti di 36 società coinvolte, 47 indagati e della filiale romana di una primaria banca nazionale ove diverse società fittizie (apparentemente fra loro scollegate) avevano aperto i conti correnti utilizzati per le frodi.
Le indagini hanno, quindi, permesso agli inquirenti di individuare almeno 16 società fittizie, totalmente sconosciute al Fisco, che tra il 2013 e il 2014 hanno evaso IVA per circa 25 milioni di euro. Queste società, tra l’altro, erano “amministrate” da soggetti di ogni genere: idraulici, parcheggiatori abusivi, mendicanti senza fissa dimora e cittadini stranieri residenti all’estero, ma domiciliati presso un hotel milanese. Invero, anche le sedi legali delle due società non erano da meno: talune, infatti, erano inesistenti o dichiarate in negozi vuoti, fast food e, addirittura, in un centro sociale della capitale.
Il sistema di frode, basato sulla creazione e sull’interposizione fittizia di società “fantoccio” nella filiera commerciale, ha sfruttato l’emissione di fatture false per un totale di oltre 350 milioni di euro, che potrebbero però aumentare con la ricostruzione dei rapporti emersi dalle recenti perquisizioni.
In sintesi, alcune società sane vendevano, almeno sulla carta, oro industriale, di purezza pari o superiore a 325 millesimi, alle società fittizie, definite “cartiere” (dal momento che l’attività si limita allo spostamento della carta delle fatture) intestate a “prestanome”. La purezza minima di 325 millesimi faceva sì che le vendite in questione avvenissero tramite il regime di non imponibilità IVA definito “reverse charge”, che permette alla società acquirente (in questo caso la “cartiera”) di non pagare l’IVA sull’acquisto. Quindi, pur non eseguendo alcun tipo di lavorazione sul metallo acquistato (in quanto società fittizie, senza uffici, stabilimenti o macchinari industriali), le cartiere rivendevano la merce acquistata riducendone il titolo di purezza, in modo da poterla cedere con IVA, maturando così un debito da versare all’Erario.
È facile prevedere cosa avvenisse in seguito: i soldi “sparivano” dai conti correnti, lasciando gli improvvisati amministratori con debiti milionari nei confronti dello Stato. La merce, proveniente dalle società “sane”, giungeva ad un destinatario finale reale passando, quindi, tramite le “cartiere”. Per rendere meno evidente il disegno criminoso, tale passaggio commerciale veniva filtrato anche tramite ulteriori società – definite appunto “filtri” – che evitavano un contatto commerciale diretto tra il destinatario finale della merce (società sana ed operativa) con le società cartiere.
In particolare, le perquisizioni hanno portato al sequestro di rilevante documentazione riconducibile alle società “cartiere” e a quelle che fungevano da “filtro”, oltre che alle fatture milionarie incriminate, che saranno analizzate dagli investigatori per quantificare al meglio gli importi e per chiarire le posizioni di tutti gli indagati.
Appare quasi superfluo aggiungere, infine, che molti dei soggetti coinvolti si sono dati alla macchia con la propria parte di bottino, tornando nel proprio Paese d’origine (nel caso degli stranieri) o lasciandolo (nel caso di soggetti italiani) per sfuggire alla macchina della Giustizia.