Era l’8 novembre del 1926 quando i fascisti arrestarono Antonio Gramsci. Esattamente 90 anni fa uno dei più grandi intellettuali italiani del ‘900 veniva prelevato dalla sua abitazione e rinchiuso nel carcere romano di Regina Coeli, violandone l’immunità parlamentare. Nei giorni precedenti (il 31 ottobre), Mussolini subì un attentato a Bologna e questo fu il pretesto per l’eliminazione di quei residui di democrazia rimasti: il 5 novembre vennero sciolti i partiti d’opposizione e fu soppressa la libertà di stampa. Poi si passò all’arresto degli oppositori politici.
Da Roma Gramsci fu poi trasferito a Ustica, prima di essere portato a San Vittore il 7 febbraio 1927. Non si riuscivano a trovare accuse per cui imputare Gramsci. Fu solo dopo l’istituzione del Tribunale Speciale Fascista che il processo farsa potè cominciare, il 28 maggio. Gramsci fu accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe. Nella requisitoria, il pubblico ministero pronunciò una frase destinata a rimanere tristemente celebre: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”.
Il 4 giugno Gramsci fu giudicato colpevole e condannato appunto a 20 anni di carcere e il 19 luglio fu rinchiuso a Turi, in provincia di Bari. Lì, in quella cella minuscola, il filosofo e politico iniziò la stesura di quella che diventerà la sua opera più celebre, nonché uno dei massimi capolavori della filosofia italiana del XX secolo: “I quaderni del carcere”. Quello di Gramsci è un pensiero estremamente originale. Eppure nelle scuole italiane il suo nome non viene mai fatto, se non come fondatore del Partito comunista italiano. Sembra quasi che ci si sia dimenticati dell’intellettuale Gramsci.
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