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LECCO – Non c’è due senza tre: dopo il 2019 e il 2020, che bello vederli di nuovo! Marco Zoppello e Michele Mori di Stivalaccio Teatro hanno presentato mercoledì 23 novembre al Cineteatro Palladium di Lecco il primo episodio della loro trilogia: Don Chisciotte. Tragicommedia dell’Arte. Avrebbero meritato un teatro stracolmo e l’attenzione da parte dei più giovani, ma chi c’era – è sicuro – li cercherà di nuovo, e chi li ha già visti, torna con amici e parenti. Perché i due giovani sono dei vulcani di energia e ogni volta riescono a conquistarti con i fuochi d’artificio della loro bravura e comicità. E infatti dopo tanto ridere, si esce riconciliati con il mondo, perché il riso fa bene, soprattutto quando è liberatorio e intelligente.
Tutto sembra affidato all’improvvisazione e invece si tratta di un meccanismo studiato con sofisticata precisione. A partire dalla trama, che prende spunto da personaggi storici, due teatranti realmente esistiti nel XVI secolo, tali Girolamo Salimbeni di Firenze (interpretato da Mori) e il padovano Giulio Pasquati (Zoppello). A Venezia, nell’anno di grazia 1545, Sua Chiarissima Eccellenza l’Inquisitore accusa i nostri, che rischiano addirittura la forca, perché hanno osato recitare in tempo di Quaresima “sconce commedie dell’arte”, con sberleffi contro il doge e altre invenzioni di dubbia moralità. Ottengono però la grazia di un ultimo desiderio: recitare ancora una commedia. La scelta cade sulla storia di Don Chisciotte e Sancho Panza: l’hidalgo dall’accento fiorentino (Mori), guarderà il mondo con la sua poetica visionarietà e Sancho (Zoppello) lo seguirà con il suo ruvido pragmatismo veneto, in una scena spoglia (un panno rattoppato e multicolore e pochi semplici attrezzi). Sul canovaccio del celebre capolavoro, si dipana quindi un’abile parodia, intrisa di elementi anacronistici e di trovate esilaranti (per esempio Ronzinante-manico di scopa, destriero “unigamba”), in un turbinio di invenzioni comiche e linguistiche, scambi di ruoli e di voci, e mille peripezie. Molto suggestiva la scena dei mulini a vento.
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In una prima fase, dalle maglie della trama ben costruita, ci mostrano le varie sfumature del comico: la gag alla Stanlio e Ollio, la finta sberla con caduta e capriola, l’effervescenza linguistica e i calembours (“mentecatto/mentecane”, “sono vivo e veneto”), la grazia del candore e la petulanza cialtrona, in un’alternanza ben calibrata fra alto (le perifrasi poetiche ed eloquenti di Don Chisciotte) e basso (il realismo sgangherato di Sancho). Poi questi artisti-“pasticceri della risata” rimescolano i diversi ingredienti in un amalgama che è omaggio appassionato agli elementi primordiali della Commedia dell’Arte (compaiono in scena anche le maschere), e trapelano anche debiti verso Carmelo Bene, Dario Fo, Totò, Sordi… Il tutto, espresso da una mimica sbalorditiva, accentuata da trucco e biacca.
Non riescono a stare fermi: è un continuo sali-scendi dal palco, perché lo spettacolo si costruisce insieme al pubblico, che inconsapevolmente viene attirato nel meccanismo teatrale. Come creare la bella Dulcinea? Semplice: si preleva dalla platea. Ormai, totalmente sedotti da questi due abilissimi cialtroni, accettiamo un dialogo collaborativo sempre più ravvicinato e intrusivo (“Non si preoccupi signora, sono vaccinato”; “Tenga lei questa gallina marrana: è igienizzata”). E così gli spettatori diventano pecore e montoni, un esercito in marcia e perfino registi della terribile prova dell’improvvisazione e del mimo: siamo noi a decidere le direzioni della comicità (città-oggetto-personaggio). Ed ecco che il cavaliere, a cavallo del suo Ronzinante (un altro spettatore prelevato dal pubblico) affronterà addirittura Donald Trump “in un lamp”: un duello all’ultimo sangue fra “Don e Don’(ald)”, perché è lui il cattivo che tiene prigioniera Dulcinea nel Municipio di Hong Kong e finirà male, rapito in cielo da un pallone aerostatico, per poi sfracellarsi al suolo.
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Gli Stivalaccio ci insegnano che gli spettatori non sono consumatori passivi di una storia, ma ingredienti necessari, o se vogliamo pietanze, per un’abbuffata di comicità che è anzitutto condivisione. Dopo la solitudine imposta dal lockdown e tanti rigurgiti di individualismi estremi, la possibilità di ridere e di plasmare insieme una storia, è un balsamo per il cuore, ma anche una riscoperta della magia del teatro.
La coda finale, che mescola suggestioni letterarie (Dante, Shakespeare, Calderón de la Barca), scioglie il riso in poesia: si riflette sulla finzione del teatro, sulla vita come ombra e sogno. Un velo di malinconia che è la soglia necessaria per rientrare nella realtà, a gradi, dopo le vette esilaranti. Servirà infine un minuto di applausi per salvare dalla morte i nostri due attori cialtroni, e naturalmente il pubblico lecchese è generoso.
Anche stasera abbiamo salvato il teatro, e i due giovani di Stivalaccio, che ci hanno portato il “contagio” di tanta ilarità, ci danno l’ultima lezione: “Andate a teatro, sempre e comunque: con il Greenpass, il Telepass, il Bypass, non importa. Andate a teatro!”. Perché il teatro vive grazie al suo pubblico, e ce ne siamo resi conto in questo lungo periodo di chiusura. E allora, viva il teatro! Viva la commedia!
Gilda Tentorio