LECCO – Sabato sera, una simpatica cena fra amici, che non sarà per niente tranquilla. Le Prénom, visto al cineteatro Palladium mercoledì 13 marzo è una commedia di successo dei francesi Mathieu Delaporte e Alexandre de La Patellière, che dopo aver sedotto la Francia con una pioggia di premi nel lontano 2010, è diventata due volte film (Cena tra amici, per la regia degli stessi autori e Il nome del figlio di Francesca Archibugi). Da alcuni anni il Teatro Stabile di Genova porta il testo in giro per l’Italia (regia di Antonio Zavatteri). La traduzione è curata dal drammaturgo-attore-regista Fausto Paravidino, già di per sé una garanzia di qualità. E infatti il testo funziona.
L’umorismo francese, si sa, è meno gelido di quello britannico, ma più ricercato, tanto più in questo caso, ritratto spietato di una generazione di quarantenni della classe benestante. I due padroni di casa sono insegnanti: Pierre all’università, Elisabeth in un liceo di periferia. Una coppia in apparenza ideale, di una sinistra radical-chic, come si nota anche dal salotto di buon gusto ricreato in scena, dove qua e là spuntano soprammobili esotici: una testa di Buddha, un tavolinetto intarsiato, una sedia bassa in vimini intrecciati.
Gli invitati sono gli amici di una vita: il timido musicista Claude, il mattatore della serata Vincent (amico di Pierre e fratello di Elisabeth) e sua moglie Anna, che aspetta un bambino. Una serata alla buona, quindi. Ma il menu non prevede una semplice spaghettata, perché i palati raffinati vanno stuzzicati con sapori particolari – e in questo caso i piatti saranno ispirati alla cucina marocchina.
Mentre Elisabeth continua a correre avanti e indietro presentando pietanze dai nomi esotici, gli uomini si accomodano e cominciano la conversazione. I toni sono brillanti, si percepisce una confidenza di vecchia data, che dà luogo a freddure e schermaglie bonarie.
La svolta è segnata dalla tipica domanda che si pone a chi attende un erede: come lo chiamerete? Infatti il nome è ciò che ci portiamo addosso per tutta la vita, il biglietto di presentazione alla società, e deve essere meditato e pensato bene. Ecco l’inattesa rivelazione e la prima incrinatura, dopo scherzi e indovinelli: il neonato si chiamerà Adolphe. Ma come? Il bambino porterà il nome di Hitler, il promotore della Shoah? Non è ammissibile, è una questione morale. La discussione assume toni grotteschi: l’ira di Pierre monta sempre di più, fomentata anche dalle argomentazioni disarmanti del cognato e dall’equivoco creato dall’inconsapevole Anna.
Voleranno parole grosse, finché il burlone dichiara che era tutto uno scherzo. Di pessimo gusto, certo, ma ormai lo spettro di Hitler ha acceso la miccia e nonostante gli sforzi, la tensione resta palpabile. È come se si fossero attivati dei ricettori sensibili e l’ironia ora apre solchi e ferite. Infatti si scoperchiano segreti (Claude è l’amante della madre di Elisabeth e di Vincent) e vengono finalmente a galla verità nascoste (notevole è lo sfogo di Elisabeth, sorella e poi moglie in ombra, schiacciata dal peso delle responsabilità quotidiane). Interessante il ruolo di Vincent, spregiudicato arrampicatore sociale e anche manipolatore delle parole, a cui viene affidato all’inizio il ruolo di narratore. La cena si trasforma in un gioco al massacro (scorre addirittura il sangue: Vincent rompe il naso del “patrigno” Claude), una parabola sulla crisi dei rapporti, usurati da una familiarità solo di facciata, schiacciati invece dall’egoismo.
Poco importa se alla fine della vicenda scopriremo che il maschietto tanto atteso sarà invece una bambina: la tempesta emotiva scatenata quella sera è servita almeno a dissipare la coltre di ipocrisia, di verità sofferte e comode bugie, facendo emergere rancori, delusioni, sospetti. Forse nel finale risulta un po’ ammorbidita la vena di amarezza, che scivola nella previsione di un futuro happy end. Il pubblico però gradisce, si riconosce nelle situazioni, è divertito e apprezza l’ironia dei dialoghi serrati, ben gestiti da una compagnia affiatata.
Gilda Tentorio