STRAGE DI CHIUSO/LA RIFLESSIONE: “PRIMO NON RIMUOVERE”

Gent. Le Direttore

Mi sia consentito come cittadino una riflessione in merito al triplice infanticidio di Chiuso.

In situazioni tragiche come questa la cosa più normale è rimuovere il problema. Succede sempre così. Quando si può si trova un capro espiatorio su cui proiettare la nostra indignazione. Quando la situazione è complessa e il capro espiatorio non è a portata di mano si sceglie la strategia del silenzio. Quella della rimozione. Noi non conoscevamo i nostri vicini. Erano brave persone. Bravi lavoratori. Ai  nostri servizi non sono mai pervenute segnalazioni. A scuola non abbiamo mai notato niente di anormale.

Tutto vero sul piano dei fatti. Probabilmente.

L’ansia che ci attraversa è quella di chiudere, invece di mantenere aperto il problema.

Come è possibile che succedano cose così? Noi, siamo diversi.

La società, noi tutti, abbiamo, un solo interesse. Chiudere il discorso. E lo si fa ricorrendo ai necessari riti. Per cancellare un vuoto intravisto. Angosciante. Il vuoto di una norma sociale o giuridica che non funziona. O funziona male e non sempre. Che è una sovrastruttura fragile che come una nave in tempesta è squassata da un mare  incontrollabile.

La logica del discorso vuole che tutto ritorni normale. Che la morte e la violenza venga scacciata dalle nostre fantasie e dai nostri pensieri. La violenza e la morte sta altrove in ogni caso. E quando diventa difficile nominare l’altrove, l’angoscia che si spalanca sulla violenza viene buttata fuori dalla nostra coscienza condivisa. Dalla nostra coscienza coerente. Non contraddittoria.

Non uccidere. Il primo comandamento sociale, ti dice in primo luogo, prima della ingiunzione negativa, che tu, come tutti, puoi uccidere. Che basta poco, perché il sistema delle regole ne venga travolto. Perché il conflitto sobbalzi e travolga la regola. Ti dice che la regola è un rimedio, ma debole. Il problema allora è il conflitto, lo scontro e l’incontro di forze costruttive e distruttive. Saperne l’esistenza, riconoscerle dentro ciascuno di noi, convivergli, è il primo passo, verso un percorso di addomesticamento, che faccia prevalere le forze unitive, di vita. Forse.

A volte basta poco, tuttavia, seppur anche avvertiti, a non farsi travolgere. Assumere la violenza su di noi non è semplice. Proiettarla sugli altri è facile, come rimuoverla. Con il silenzio. Che sopraggiunge dopo il cordoglio di rito.

Pensare alla pena dura come rimedio è un modo impotente per immaginare la giustizia. E’ un buttare sul carnefice- vittima una responsabilità, che è anche nostra. Cui solo il caso, o la fortuna ci permette di fuggire. Il responsabile è l’altro, anche qualora fosse l’altro reale, il carnefice.

C’è una via d’uscita?!. Penso di sì. Non si tratta di psicoanalizzare tutti. Si tratta di creare le condizioni psico-mentali e culturali di una effettiva capacità di inclusione. In cui uno è libero di stare da solo, ma non è costretto alla solitudine e all’abbandono. Sono  la società e le istituzioni che devono essere in grado di creare questo umore profondo. Un umore non solo mentale ma anche economico, sociale e relazionale Perché le onde profonde e le pulsioni contrastanti che ci attraversano, e da cui siamo trascinati,  incontrino, nel reale, nella società, un contenitore buono.  Sufficientemente buono.

Che non ti faccia sentire nell’angoscia e nell’isolamento.

Alessandro Magni