L’URLO/QUALITA’ DELLA VITA?
LECCO, LA CITTA’ PERDUTA

La certificazione del crollo della qualità della vita a Lecco, sancito dalla tradizionale indagine del Sole 24 Ore non stupisce, chi ci vive si era già accorto che le cose non funzionano più da un pezzo.

Lecco è una città che ha perso l’anima ed è guidata in ogni campo da figure mediocri, intente principalmente a tessere la rete delle personali relazioni utili alle loro attività e solo marginalmente interessate al destino della comunità che dovrebbero guidare.
Lecco e la sua provincia sono il regno della ‘ndragheta, dove non si conta più il numero di arrestati in inchieste e operazioni che ormai hanno cadenza annuale.
Questa città, ahimè, era molto altro, molto di più.

Purtroppo, se ne sono andati, o se ne stanno andando per raggiunti limiti d’età, gli imprenditori che dal dopoguerra hanno costruito la ricchezza di questa piccola fetta di Lombardia. Iindustriali magari poco avvezzi alla lingua italiana ma con capacità di lavoro, di visione, di analisi, e di rischio imprenditoriale, irraggiungibili.

Con loro se ne è andata l’anima di Lecco, quella industriale, ma è colpa loro il non aver voluto assumere la responsabilità della loro indiscussa leadership nella guida del territorio, abdicando a favore dei costruttori edili. E’ colpa di questa rinuncia di mettere a disposizione il proprio talento, che la bellezza industriale non è stata sostituita dalla bellezza turistico residenziale. Loro, solo loro, avevano i numeri per guidare il cambiamento.

La storia viene da lontano, dalla prima repubblica, da quando a comandare in Comune c’era la DC col PSI, il sindaco ciellino, Giulio Boscagli, genero di Roberto Formigoni, e il vicesindaco Pierluigi Polverari.

Con loro la crisi delle grandi aziende metalmeccaniche lecchesi si è trasformata in una colata di cemento di una bruttezza e di un’inutilità disarmanti.

Le vecchie e fascinose fabbriche sono diventate palazzoni. Addirittura il buon Renzo Piano ha preso le distanze dal suo progetto delle Meridiane, che sarebbe dovuto essere un fiore all’occhiello ma è diventato un luogo di degrado, di traffico, di rotonde e rettilinei ed accessi pericolosissimi per la salute di pedoni, ciclisti e motociclisti.

Lecco è francamente brutta, di bello ha solo quello che è rimasto dei doni che la natura le ha dato e che la circondano. Era molto più bella quando c’erano i fabbriconi in centro, con il loro patrimonio umano, culturale e sociale della classe operaia che affollava le vie della città al suono della sirena di mezzogiorno e che nel tempo libero andava per la montagna, sul lago e con i suoi figli atleti, portava a casa vittorie e trofei da tutto il mondo.

Allora il volontariato era il luogo dove “padroni” e “operai” sancivano la loro alleanza, il patto che li vedeva come corpo unico della comunità.

Lecco aveva un cuore pulsante di intellettuali che l’amavano (e che continuano ad amarla in silenzio da quando si sono resi conto di essere diventati dei moderni Don Chisciotte) e che la stimolavano quotidianamente.

Lecco aveva le pendici delle sue montagne verdi, in cui poche cascine e qualche stalla punteggiavano con garbo campi e boschi. Campi e boschi divorati letteralmente dal cemento dei costruttori nostrani.

Quando era industriale, la città del Manzoni, era più agricola e più turistica, era più viva, era meta ambita.

Potrà tornare ad essere una città in cui vale la pena di vivere?
Forse con le nuove generazioni. Forse.
Ma passerà molto tempo per avere un cambio completo della sua classe dirigente.

Victoria Victrix