LECCO – Tino Vaglieri (Trieste 1929 – Milano 2000) è un artista straordinario, troppo presto e troppo facilmente dimenticato da tanta critica così come dal mercato, compagno d’avventura di un gruppo di amici e colleghi poi “classificati” sotto il nome (e lo spirito) di quel realismo esistenziale che tante tracce ha lasciato nell’arte contemporanea italiana dalla metà degli anni ’50 in poi. A lui la Galleria Bellinzona di Lecco dedica ora una mostra intrigante e spettacolare che propone 16 opere realizzate tra il 1954 e il 1956 e culminanti nella folgorante immagine del Cristo crocifisso della Morte del Minatore, ispirata alla tragedia delle decine e decine dì minatori italiani che, nell’estate di quell’anno, trovarono la morte nei cunicoli sotterranei di Marcinelle, piccolo centro carbonifero del Belgio.
La mostra – Tino Vaglieri. Dalla Sicilia a Marcinelle. Estate 1956 – sarà inaugurata sabato 23 febbraio alle 10.30 nella sede della Galleria Bellinzona in via Azzone Visconti 12. Per iniziativa della galleria, in collaborazione con il Centro culturale Alessandro Manzoni di Lecco, il 18 marzo (alle 20.30 in galleria, alle 21 alla Sala conferenze dell’Unione industriali in via Caprera 4) è poi in programma l’incontro pubblico Iconografia di un Crocifisso. Morte del Minatore di Tino Vaglieri, riflessioni di Laura Polo D’Ambrosio.
Protagoniste dell’esposizione sono le opere realizzate a metà degli anni ’50, nel pieno della rinascita e della ricostruzione post-bellica che coinvolse Milano. Questi furono gli anni delle mostre dedicate ai grandi maestri internazionali, grazie alla straordinaria capacità di Franco Russoli memorabile e geniale sovrintendente ai beni culturali: fu quest’ultimo a curare la celebre retrospettiva di Picasso a Palazzo Reale nel 1953, che ancora danneggiato dai bombardamenti ospitò Guernica (per volontà dell’artista) consentendo alle nuove generazioni di assorbirne l’eccezionale forza espressiva. Seguirono nel 1951 e 1952 le esposizioni dedicate rispettivamente a Caravaggio e i caravaggeschi, a cura di Roberto Longhi, e a Vincent Van Gogh. Longhi curò anche nel 1953 la mostra I pittori della realtà, mentre nel 1954 le opere di Georges Rouault furono esposte durante la mostra inaugurale del Padiglione d’Arte Contemporanea (PAC). Una città vitale e ricca di fermenti culturali che hanno fatto da sfondo all’attività di Vaglieri e degli artisti a lui contemporanei, capaci di cogliere e sviluppare questi stimoli straordinari anche fuori dalle aule dell’Accademia di Brera.
Oltre alla riproduzione delle opere esposte, il catalogo della mostra, curato da Oreste Bellinzona, propone testi di Elena Lissoni, Laura Polo D’Ambrosio, Arianna Beretta e dello stesso Vaglieri: la lettura di queste pagine rappresenta un passaggio fondamentale per immergersi nel clima storico e culturale dell’epoca, approfondendone gli sviluppi artistici. Spiega Oreste Bellinzona, organizzatore e curatore della mostra: “Sottoproletario milanese del ‘44, di Porta Ticinese, allievo non assiduo del liceo Manzoni, sono cresciuto con problematiche “esistenziali” perfettamente descritte da Tino Vaglieri e dai suoi compagni di Brera. Con l’apertura della galleria, affascinato com’ero dalla loro cultura, non potevo non farli diventare “artisti della galleria”. La loro arte ha segnato tutto il mio percorso professionale. Ho conosciuto e frequentato assiduamente Bodini, Cazzaniga e Ferroni e ne conservo ricordi umanamente molto importanti. Mi sono sempre meravigliato per il successo critico e mercantile assolutamente inferiore al loro vero valore. Se fossero stati tedeschi, sarebbe stata un’altra storia. Ma forse la loro arte non era condivisa dai borghesi del miracolo economico e dagli intellettuali organici della sinistra ufficiale, e non solo”.
“La storia della Galleria Bellinzona – scrive Elena Lissoni – testimonia l’attenzione verso il lavoro di artisti che hanno operato a Milano dalla metà del secolo scorso contribuendo a fare del capoluogo lombardo uno dei centri più vitali dell’arte europea di quel periodo. Tra questi c’è Tino Vaglieri considerato dall’attenta, e ancora libera, critica dell’epoca come uno dei grandi talenti dell’arte italiana contemporanea. Il viaggio in Sicilia dell’estate del 1956, insieme all’esecuzione della grande tela Morte del minatore, dipinta sulla spinta emotiva dettata dalla tragedia di Marcinelle, costituisce un episodio fondamentale del percorso creativo di questo grande e solitario artista: alla rappresentazione epica e trionfalistica di un popolo in rivolta – appartenente a una pittura realista spesso docile interprete delle istanze della politica – Vaglieri contrappone una visione desolata e umiliata dell’esistenza umana che affonda le sue radici nella realtà, proiettandola nella muta violenza di un mondo – che sia quello siciliano o delle miniere in Belgio -, senza alcuna possibilità di riscatto”.
Morte del Minatore è proprio il cuore e il culmine della proposta della Galleria Bellinzona. Aggiunge Elena Lissoni: “In quella estate del 1956, mentre Vaglieri realizza le sue opere siciliane, in Belgio a Marcinelle lo scoppio del grisou provoca la morte di centinaia di minatori, per la maggior parte lavoratori italiani emigrati in Belgio: alla notizia della tragedia, che scosse l’opinione pubblica, l’artista dipinse febbrilmente Morte del minatore, uno dei suoi più straordinari capolavori. In quel quadro – una crocifissione – un dolore antico si rinnova nel presente, nella violenza di un uomo ucciso, come un avvenimento conficcato nel profondo di un’epoca storica che portava con sé – e porta ancora – i segni di ‘una spaventosa, rapida o lenta apocalisse e quelli di una possibile rigenerazione umana’, come ebbe a dire lo stesso Vaglieri”.
Vaglieri, in quest’opera realizzata in una sola giornata, si rifà espressamente alla Crocifissione cinquecentesca di Grunewald, oggi esposta a Colmar, in Alsazia, che un segno profondissimo ha lasciato nell’arte moderna e contemporanea, anche quella lontana dai temi religiosi ma appassionata all’uomo, al suo dolore e alla sua sofferenza. Temi che stanno particolarmente a cuore degli esponenti del Realismo esistenziale: Mino Ceretti, Giuseppe Guerreschi, Bepi Romagnoni, Giuseppe Banchieri, lo scultore Floriano Bodini, Giancarlo Cazzaniga, Gianfranco Ferroni, appunto Tino Vaglieri, tanto per citarne alcuni. Nel 1956 proprio Ferroni e Vaglieri, “all’epoca giovani artisti poco più che esordienti – scrive ancora Lissoni -, intrapresero un viaggio in Sicilia, ripercorrendo a ritroso il percorso di uomini e donne che lasciavano i loro paesi, emigranti diretti non solo a Milano, ma anche a Torino e nelle altre grandi città industriali, spesso spingendosi fino in Germania e nel Nord Europa. Da quella esperienza nascono alcune delle opere più violente e straordinarie di Vaglieri: grandi teste drammatiche che urlano una protesta, scene di vita tribale e ancestrale dipinte con una accentuazione espressionistica assai evidenziata e con colori e materia quanto mai violenti. Agli occhi del pittore la Sicilia diventa una terra mitica, spettrale – a tratti magica nella sua intensa luce metafisica -, un luogo senza tempo, dove l’asino si ribella inutilmente contro le percosse, e uomini e donne sono umiliati dalla fatica e dalla violenza in ritratti colti in primi piani da film espressionista. Vaglieri arriva così al cuore della questione, all’urgenza di rappresentare il reale nella sua brutalità e insensatezza, nel conflitto tra l’uomo e l’assurdità del mondo, come nelle pagine di Sartre e di Camus, le cui opere giunsero in Italia nel dopoguerra”.
La mostra sarà aperta al pubblico dal 23 febbraio al 20 aprile.
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