RELIGIONI: LA MEDITAZIONE
DI DON GIOVANNI MILANI.
5ª DOMENICA DI QUARESIMA

Pagina questa, non solo estesa, davvero di singolare importanza nel vangelo di Giovanni. Si tratta infatti del settimo segno, l’ultimo e supremo. Dice (ci dice) Gesù in modo oltremodo diretto: “Io sono la risurrezione e la vita”. E lo prova: il segno che sta per compiere, la rianimazione del cadavere di Lazaro, evidente allusione della risurrezione: la sua.

Questo non è solo fatto e segno, è profezia della salvezza di risurrezione (la sua e la nostra) passando per – e vincendo – la morte; ancora qui, non solo per sé: per noi; secondo la torva profezia di Caifa. Allarga e riflette infatti Giovanni: “per la nazione¸ e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”.

Segno dunque su cui singolarmente riflettere.

La nostra tradizione fa lettura in quaresima e – più volte è occorso dirlo – tempo di preparazione catecumenale e riflessione sul Battesimo. Troviamo nel brano anche tracce che possiamo leggere in modo pertinente, ad esempio nei richiami al recente segno della luce al cieco, più volte richiamato, ma soprattutto nello spessore più significativo del Battesimo che è il dono di vita nuova: l’uscire dalla morte del peccato, per la risurrezione, la vita nuova (eonica, piena, vera, nel Signore) in Cristo risorto.

La resurrezione che celebreremo nella Pasqua (anche, tutt’uno con la croce, di ogni celebrazione eucaristica) è il discrimine della nostra fede.

L’abile scrittura del Vangelo di Giovanni trae dai fatti narrazione della fatica di affidamento a Gesù, prima dei discepoli, umanamente appassionati sin a disponibilità della vita stessa; delle sorelle, non tratte dal dolore cui addirittura partecipa lo stesso Gesù, ma condotte alla fede, alla fiducia che è il Signore la possibilità della vita vera, piena.

Il segno, in sé, rimarrà solo nel tempo e si dissolverà (i capi giudaici faranno progetto di cancellarlo, non solo con la morte di Gesù, ma aggiungendovene una seconda e violenta per Lazaro), ma la vittoria sulla morte che v’è adombrata, non sarà effimera: per tutti gli uomini che aderiranno nella fede al Signore Gesù.

Lo schema narrativo è lo stesso di quello del cieco. La dichiarazione della fragilità esperita non per la morte, infatti: “questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. E la dichiarazione di Gesù, già riportata, nella “luce del suo giorno”, della sua presenza al mondo, ha la solennità del ”Io sono”: il nome, la forza di Dio.

Ce ne sono di pietre tombali da tirar via dalle nostre lentezze nella fede, nell’affidarci al Signore; c’è tutta la resistenza della nostra debolezza umana che vorrebbe costatare nell’immediatezza dei sensi, rimanendo poi però prigioniera dei loro limiti che non sanno interamente ed esaustivamente percorrerla nelle esigenze più alte, quelle che raggiungono la profondità dello spirito. Possiamo davvero, pure noi, ascoltare quel: “vieni fuori!” e ci giovi la grazia della Pasqua che vogliamo raggiungere.

Don Giovanni Milani