DON G. MILANI, MEDITAZIONE
SU GESÙ CRISTO
RE DELL’UNIVERSO

Quanto ci è proposto nel vangelo di questa ultima domenica dell’anno liturgico è la parte finale del discorso escatologico, la parola sulle “ultime cose”; costituisce così una sorta di sunto dell’insegnamento di Gesù trasmesso da Matteo, è in forma di giudizio; la solennità della scena invita a leggerlo come giudizio sull’intera storia. Notiamo subito: è il “Figlio dell’uomo” – l’espressione è presa da Daniele, ma qui significativa, infatti è detto anche “il re” – che giudica con giudizio collettivo πάντα τὰ ἔθνη: tutti i popoli, propriamente, tutte “le genti”: i pagani. Non dobbiamo qui trarre la logica che dunque non ci interessi: se è giudizio sulla storia dove fin le genti sono – collettivamente giudicate – tanto più forte dovrà esser la nostra riflessione di cristiani.

L’immagine del pastore che divide “le pecore dalle capre” è tratta da Ezechiele ed è pure comune alla vita pastorale; è la divisione tra i “benedetti del Padre mio” e i “maledetti”; questi, notiamolo, non dal “Padre mio”, il Padre non maledice; sono sì, dannati; la traduzione liturgica dice: “nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli”: a me piace intendere come il fuoco τὸ αἰώνιον: per il mondo, è la vanificazione del regno del diavolo: tutti coloro – pagani e ancor più cristiani – che sono rimasti indifferenti ed egoisti senza considerare il prossimo, massimamente debole e sofferente, passeranno per il fuoco: finiranno nel vuoto, nel niente. Tutto ciò che è male, non è amore viene bruciato perché diabolico. Il testo ci presenta una coreografia grande e solenne, non è questa che deve prendere la nostra attenzione, perché il centro dell’insegnamento è nelle risposte date ai “benedetti del Padre” quanto agli altri, tutti ignari del senso più vero del loro agire: “In verità (Ἀμὴν: affermazione solenne) io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.”

È – solennemente – il Figlio dell’uomo (e re!) che parla per identificarsi (“l’avete fatto a me”) con l’uomo il più piccolo, debole – il fratello – che non ha merito se non proprio in quello, nella piccolezza, debolezza, fragilità: indigenza di vita. Notiamo: la narrazione di Matteo anticipa immediatamente quella della passione e della croce dove Gesù è ultimo e solo (“abbandonatolo, fuggirono” Mt 26,56) il Figlio dell’uomo assomma e si identifica con ogni debolezza d’uomo. Il nostro brano è il giudizio sulla storia che rovescia ogni criterio umano, ci dà la logica di Gesù: è quella della salvezza, del senso dell’uomo: salvare l’uomo nel suo bisogno di vita è criterio di ogni umanità salvata, non è la fede, non è la religione, ma l’amore che dà senso all’uomo (tanto più al cristiano). Persino tutte “le genti” saranno chiamate a giudizio sull’amore perché è il criterio fondamentale dell’azione di salvezza di Gesù, non perché la fede non salvi, solo però una fede che sappia contemplare nel povero, nel malato, nel carcerato, nello straniero il Figlio dell’uomo. 

 

Don Giovanni Milani