Il contesto dell’ultima cena ci sta diventando quasi consueto in queste domeniche, così ci sentiamo più agevolmente immersi nella densità di questo ritaglio di vangelo esiguo solo per la brevità, non certo modesto per quanto ci comunica.
Celebriamo la Pentecoste con il ritmo che la Chiesa ha fissato, ricevendolo da Luca; lui ha storicizzato l’effusione dello Spirito nella festività, originariamente agricola, “dei sabati” che la tradizione ebraica solennizzava come una delle grandi feste annuali di pellegrinaggio. È bene però ricordare che l’effondersi dello Spirito santo è tutt’uno con il mistero della Pasqua; se lo celebriamo con cadenza liturgica più diffusa nella resurrezione, nell’ascensione e nella pentecoste – con ritmi evocativi delle più antiche tradizioni numeriche – è soprattutto per avere modo di riflessione più incisiva e feconda del grande dono della salvezza che il Signore ci ha donato con la sua morte e resurrezione.
Qui, intendo nel nostro brano, il Signore Gesù inizia a parlare dell’amore dei discepoli dimostrato nell’osservanza dei suoi comandamenti. Questo parlare non incontra la nostra sensibilità; è allora bene richiamare quella dell’ambiente ebraico così incline a ritrovarsi in adempimenti e leggi, ma più ricordare che i comandamenti di Gesù stanno tutti nell’amore che non è certo costrizione o imposizione, ma è moto dell’animo nell’aderire libero al bene che lui ci indica ed offre.
L’attenzione del Signore è mirata ai discepoli che non vuole abbandonare. Questo: “Non vi lascerò orfani” è un poco centro focale del dire di Gesù; pure noi siamo ancor più interessati al modo di questa sua presenza: allo Spirito che ci è donato. Egli, mentre è prossimo a separarsi fisicamente dai discepoli, si preoccupa della fragilità della loro (e nostra) umanità, non vuole semplicemente attuare un abbandono: assicura un altro difensore (ἄλλον παράκλητον) perché rimanga con loro per sempre. Questo difensore, consolatore, paracleto – usando la sua stessa espressione – è lo Spirito della verità, cioè lo Spirito santo che conduce alla verità, alla pienezza del dono che “il mondo non puòricevere perché non lo vede e non lo conosce”.
Il mondo si oppone alla verità, è nemico della realtà divina, per questo non ne può avere esperienza (“non lo conosce”), ma il discepolo ce l’ha questa consapevolezza: “voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi”. Gesù, anche se non può essere percepito dal mondo, è vivo – seppure sottratto agli occhi – e sono vivi i discepoli in quel dono. Non ci si riferisce qui alla vita fisica: a quella soprannaturale che “in quel giorno” farà conoscere ai discepoli l’intensità del rapporto col Padre che si rifletterà su di loro in quella pienezza di unità che Gesù ha perseguito con la morte – resurrezione e, appunto, il dono dello Spirito.
Nella nostra condizione storica tanto caratterizzata da labilità dei rapporti (la società liquida) il Signore fonda la nostra certezza della sua presenza che non verrà mai meno nell’interiorità del dono dello Spirito. Lo Spirito, come ci è ripetutamente detto, donandoci l’interiore presenza-esperienza del Signore Gesù, non solo ci dà rapporto con lui, ma ci pone proprio dentro il mistero eterno di Dio.
Don Giovanni Milani