DON G. MILANI, MEDITAZIONE
NELLA QUINTA DOMENICA
DOPO LA DECOLLAZIONE
DI SAN GIOVANNI

Quella sulla “vita eterna”, è sempre domanda di fondo volta al senso stesso della vita e allo scopo buono del suo successo, posta, sia con sincero desiderio o con intenzione distorta,com’è per quel νομικός, quell’esperto o – com’è qui tradotto – dottore della legge. Ma Gesù non risponde che con domande a coinvolgere, la prima pertinente a quel ruolo di esperto nella legge: “Cosa sta scritto?”, poi più diretto e impegnativo: “Come leggi?”. E la risposta non può essere migliore staccata dalla Scrittura, con saggio accostamento del Deuteronomio nello Shemà quotidiano, col Levitico dell’”amare il prossimo come se stessi”. Pronto a riportare e bravo ad interpretare accostando, ha l’approvazione di Gesù che rilancia verso la concretezza: “Hai risposto bene; fa questo e vivrai”.

Ma il cuore del dottore, non è disteso, vuol giustificarsi, difendersi, stare tranquillo in un sapere che fa montare l’ammirazione negli altri, ma non impegna la vita propria, così tira in ballo la vecchia questione legale. È noto il dibattito rabbinico circa qual sia la cerchia del “prossimo”, se s’estenda al popolo giudaico, agli osservanti o a chi: insomma questione da dibattere, lontana dal sentirla incidente la vita. E il Signore propone (ma anche ci propone) l’insegnamento nella parabola che conosciamo bene ed è sempre utile riascoltare. Là c’è prima lo sfortunato che scendendo da Gerusalemme a Gerico incappa così malamente nei briganti; poi ci sono il sacerdote ed il levita, così attaccati alla legge, o alla pretesa purità legale da non mettere a rischio toccando quel disgraziato “lasciato mezzo morto” (benché si stiano allontanando dal luogo di culto).

Arriva, invece, anche quella somma di tutte le possibili distanze etniche e religiose dai due referenti del sacro che è il samaritano (che forse sale verso Gerusalemme, sappiamo bene come nella Scrittura, quanto nel parlare di Gesù, contino i simboli: anche questo locale). Bene, lui ne ha compassione, “si fa vicino” ne cura le ferite, lo carica sulla sua propria cavalcatura, ma a leggere meglio in profondo (il senso primo delle parole evangeliche originali, greche ἐπὶ τὸ ἴδιον κτῆνος potrebbe essere: “sulla sua propria proprietà”) potrebbe significare un prendersi cura da metterlo nelle cose proprie non solo materiali, in quella compassione anche così concreta da fargli aprire la borsa, lo conduce all’albergo (la traduzione dice così prosasticamente, anche qui potremmo leggere quel πανδοχεῖον nel senso
originario – simbolicamente più alto – della parola che è: [luogo] che tutti accoglie).

Già, gli esponenti del sacro ligi alla tradizione e il samaritano capace di compassione e d’umano. Ma forse ben più in profondo il malcapitato può portar simbolo di ciascuno di noi quando “ci s’allontani da Gerusalemme”, dall’incontro con Dio, non gli danno sollievo coloro da cui lo si attenderebbe, ma il samaritano-Gesù che monta il disgraziato tra le sue cose dopo averlo curato, poi trae fuori i due denari, uno per giorno della sua assenza, per arrivare… il terzo giorno.

Ma tornando all’episodio, c’è un’altra domanda del Signore Gesù: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo a colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Curioso, non di chi fosse prossimo quel tale, dunque a chi toccava la cura. A Gesù – è evidente – non interessa la discussione legale, ma fa riflettere su chi lo è stato, al di là di tutte le disquisizioni o remore legali, su chi si sia fatto prossimo. Non si va in giro a cercar su chi dirigere l’amore come prossimo, piuttosto si comincia ad osservare il concreto bisogno e lì si comincia a farci noi prossimo, non per essere amati, ma per amare primi come fa il Signore.

 

Don Giovanni Milani