DON GIOVANNI MILANI MEDITA: 13ª DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

La narrazione evangelica proposta in questa domenica, ci sollecita, non solo in modo diretto con l’ammirazione del Signore Gesù per la fede di quel centurione pagano, che diventa esemplare per tutti noi; pure nel paradosso dell’incontro: si rivela davvero autentico e profondo nella sorprendente sintonia cordiale tra un pagano e Gesù pur se non si verifichi fisicamente, incontro a distanza che può diventare esemplare per noi. 

Noi non attingiamo alla presenza sensibile del Signore, ma anche noi possiamo incontrarlo, forse anche noi, dopo avere ascoltato il messaggio di Gesù (ha appena terminato il gran discorso “della pianura”) lo possiamo trovare nell’umanità debole, ferita, come è qui nel servo che “era ammalato e stava per morire” e guarirà senza neppure una parola del Signore. 

Esemplare, per la stessa parola di Gesù, è il centurione, in verità è la sua fede, ma lui stesso richiama attenzione pensosa. 

È un centurione, appartiene dunque ad un mondo che non propone particolari delicatezze, ma ci è presentato come un uomo che aveva “molto caro” il suo servitore (troveremo anche l’appellativo παῖς μου, termine ambivalente: servo, ragazzo, figliolo, certo qui scelto con delicata finezza) è uno che ama, non solo il suo “ragazzo”, ama il popolo d’Israele – sino a delicata sensibilità oltre i suoi interessi religiosi – di favorirne la costruzione della sinagoga. È una persona che è persino legata all’odiato oppressore, ma sensibile e capace di amare: ha sentito parlare di Gesù e ne ha concepito fede decisa nel suo potere; proprio in forza di questa fede, manda a chiedere in quel modo indiretto che rivela attenzione alle consuetudini di purità: non vuole entrare in un contatto contaminate, si esprime dicendosi inadatto a presentarsi. 

Nonostante i primi inviati affermino che “meriti che gli si conceda quello che chiede” lui non avanza le virtù che gli si riconoscono, anzi, la sua certezza, la sua fede incondizionata è solo nella grandezza potente del Signore Gesù a dare vita: alla sua parola ogni realtà non potrà che essere obbediente, come avviene, nel suo piccolo mondo di potere tra i suoi soldati e la sua servitù. 

E Gesù non dice parola: diremmo ratifichi, con il suo silenzio, quella fede limpida e forte che ha certezza in lui (“Tutto è possibile a chi crede” troviamo scritto in Marco). 

Non ha bisogno di proferire parola Gesù, ma trova ed esprime ammirazione per quel pagano, quell’uomo semplice, che senza appartenere al popolo del Signore ha colto la dinamica profonda dell’annuncio di Gesù: l’amore, ha maturato quella fede così salda come mai Gesù ha trovato neppure nel luogo privilegiato della fede: in Israele. 

A tutti noi sale alla mente l’omaggio che fa abitualmente la liturgia accogliendo l’umiltà del centurione e l’ammirazione del Signore. Non rimanga parola della liturgia diventi esempio di vita dinnanzi alla grandezza del mistero divino.

 

Don Giovanni Milani