DON GIOVANNI MILANI
MEDITA NELLA 12ª DOMENICA
DOPO PENTECOSTE

Nei capitoli 11 e 12 del vangelo di Matteo troviamo una narrazione ricca di molti temi ma non organizzata in sequenza di discorsi come nel capitolo che li precede e in quello che segue che formano l’ossatura simbolica del primo vangelo. Il brano poi che ci è proposto oggi, ci dà molto a pensare, infatti si discosta dalla facile immagine del Signore Gesù tutto condiscendenza e bontà, ce ne riporta parole d’amarezza e severità. Già è significativo il suo primo esprimersi: “A chi paragonerò questa generazione?”; quel temine: γενεὰν ταύτην: questa generazione, pur variamente declinato, segnala subito infatti, intonazione piuttosto in negativo, usato com’è sempre – nel Nuovo Testamento, ma già anche nel Vecchio – per esprimere riferimento all’incredulità e al tradimento dell’Alleanza. Anche i giochi dei fanciulli non rischiarano la severità delle espressioni: sono presi a paragone i neghittosi che non vogliono partecipare al gioco festoso, nuziale e rifiutano pure il mimare eventi di tristezza. Nel paragone possiamo trovare non solo immagini fanciullesche, ma riferimenti all’annuncio buono, gioioso (evangelico appunto) della predicazione del Signore e la severità ascetica di Giovanni che subito saranno richiamate con espressione solenne.

L’atteggiamento neghittoso dei fanciulli parrebbe alludere a disinteresse e indifferenza, ma il testo vi legge ben oltre: il rifiuto dell’incredulità. Così il verbo introduttivo alle figure di Giovanni e del Figlio dell’uomo, è quel “venne” (ἦλθεν) che mostra un’intensità di definitivo che porta piuttosto ad un contesto escatologico il giudizio sull’incredulità della “generazione”. Matteo annota brevemente una frase che non ci è immediatamente luminosa: “Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie”. Poco avanti, anche i discepoli di Giovanni erano rimandati alle opere di Gesù, perché sono proprio loro – “le opere che il Padre mio mi ha dato da compiere” (Gv 5,36) – che gli danno credibilità. “Allora si mise a rimproverare le città…”. L’espressione tradotta non riporta la forza quasi veemente del termine originario (ὀνειδίζειν); io vi intenderei sdegno fin con intonazione di scherno, esplicitato, non tanto nei paragoni, quanto nel ripetersi di quei: “guai”, già in uso dei profeti che è pur il medesimo lamento-nenia delle prefiche negli antichi lutti. Si stigmatizza e condanna così l’inanità delle sicurezze in cui si trincera l’incredulità degli abitanti delle città dove il Signore Gesù ha, più che altrove, portato la parola e la potenza delle sue opere: nel giudizio ci sarà minor severità per le città pagane e peccatrici.

 

Don Giovanni Milani