TEATRO/RECENSIONI: DIONISO
NON ABITA AL PALLADIUM.
“BACCANTI” DI LAURA SICIGNANO

LECCO – La stagione teatrale lecchese volge al termine ed ecco una bella sorpresa: al Cineteatro Palladium ieri, martedì 1 marzo, un pubblico folto anche di giovani liceali ha accolto le Baccanti di Euripide, il nuovo lavoro della regista Laura Sicignano (anima del teatro Cargo di Genova ed ex direttrice artistica dello Stabile di Catania).

La Sicignano ha voluto potenziare l’anima femminile della tragedia, fin dal protagonista Dioniso affidato a Manuela Ventura, una scelta non nuova (ad esempio nella scorsa stagione al teatro greco di Siracusa il dio era interpretato da una straordinaria Lucia Lavia), ma indicativa dei nostri tempi.

La scenografia è spoglia: ogni tanto dalle quinte vengono trascinate una scala, una poltrona, una scrivania e una credenza (che ha la funzione di porta d’accesso, prigione e catafalco), relitti di un arredamento vintage di una città in decadenza. Buone ma non completamente sfruttate alcune trovate sceniche. Ad esempio nel Prologo, Dioniso dall’alto della scala si presenta come il deus ex machina e imposta un magnetico gioco di braccia, in pose che ricordano la maestà di certe arcaiche dee minoiche, e d’un tratto diventa anche il grande burattinaio, che lega a sé e manovra le donne di Tebe. Bella anche l’idea di utilizzare dadi e una trottola policroma, a indicare la fragilità delle vite umane ridotte a balocchi nelle mani del dio che tutto controlla. Tuttavia questi dispositivi non sortiscono un effetto arcano: i dadi sono minuscoli e si vedono appena, la trottola non viene lasciata girare a terra in vorticose evoluzioni. Poco felici sono anche le mosse successive di Dioniso, che mostra il nervosismo capriccioso con ripetuti calci nell’aria somiglianti a mosse di karate, o compiaciuto, dirige come direttore d’orchestra il coro delle Baccanti che elenca le sue virtù…

Nei suoi lavori la Sicignano è attenta ai personaggi femminili eversivi e dopo Antigone, mostra ora in queste Baccanti una “repubblica delle donne”: dalla città di Tebe che rifiuta il dio, le donne vagano per il monte Citerone, rivendicando il potere della libertà che scardina le certezze, il disordine che incalza l’ordine, l’irrazionale che, a contatto con la natura, è una forza in grado di sovvertire la cultura. Queste le premesse, che però non vengono mantenute.

Lo scontro fra Dioniso e Penteo, il rigido re della città che rifiuta il nuovo culto, risulta mutilato e compresso: si perde quindi quel mirabile lavoro anche retorico di sfida, ambiguità, instillazione del dubbio e infine débâcle completa del sovrano. All’improvviso il re (Aldo Ottobrino), lo sguardo perso e come ipnotizzato, si lascia docilmente manipolare e vestire da donna per spiare i misteri delle Baccanti. Ma la narrazione si muove a scatti troppo accelerati e la scena assume un sapore grottesco (perché le Baccanti sono vestite da cameriere? È un’allucinazione del re, che interpreta ancora il mondo secondo le categorie di maschile-dominatore e femminile-sottomesso?). Dioniso, dio cangiante della metamorfosi, qui invece presiede un rito di travestimento, e in modo analogo altri momenti vengono neutralizzati in un carnevalesco innocuo che non ha nulla di arcano.

La figura del Messaggero (Silvio Laviano) ha lasciato perplessi molti classicisti in sala a causa della perdita di solennità a favore del grottesco; ciò vale anche per l’iniziale scambio fra Tiresia e Cadmo, più simili alla coppia beckettiana Vladimir-Estragon che a due vecchi sedotti dai nuovi riti. Realtà e finzione si sovrappongono in forme confuse nell’episodio di Euripide in cui Agave brandisce sul tirso la testa mozza del figlio, sbranato con le sue stesse mani, credendolo un cucciolo di leone. Qui è il cranio scarnificato di un toro, che resta tale anche quando Agave rinsavisce e si rende conto che è la testa del figlio: ciò che era apparenza reale nel delirio bacchico, sulla scena è dettaglio reale permanente. In questi casi la scelta migliore è invece lasciar lavorare l’immaginazione dello spettatore.

La forza tragica del testo ruota intorno al Coro delle Baccanti. Nell’antichità il coro è caratterizzato da danza e canto, due dimensioni inscindibili. Le Baccanti della Sicignano sono tre, ognuna con la sua individualità (che nel teatro antico invece si perdeva dietro lo strumento arcaico e misterioso della maschera). Non cantano (qualche vocalizzo è pre-registrato) e soprattutto non danzano. La Sicignano nelle interviste parla di suggestioni da “danza contemporanea”, ma non si vedono gesti “che parlano” alla Pina Bausch, perché queste attrici roteano teste e braccia, scalciano, sono prese da convulsioni, torcono il corpo in evoluzioni acrobatiche. Nella prima parte indossano vesti nere (preludio del lutto che devasterà la città?) e alla fine, in abiti bianchi, impostano una danza di trionfo che cerca di imitare i ritmi mimetici di certe danze africane oppure il ballo delle “tarantolate”. Se allora il legame voleva essere con il fenomeno del tarantismo (musica e danza come terapia ed esorcismo), l’affondo doveva essere più incisivo. Si ha invece l’impressione di suggestioni ibride (tribalismo, atavismo antropologico, gesti plastici contemporanei) che non giungono all’effetto del delirio orgiastico: anche in questo caso si punta all’akmé, senza curare i passaggi graduali di seduzione lenta e avvolgente, come avviene nei riti estatici.

Interessante invece l’idea della musica dal vivo in scena, con le sperimentazioni musicali di Edmondo Romano, fra tamburi e fiati dai soffi ancestrali, altamente evocativi.

Mettere in scena le Baccanti è una sfida: ultima tragedia del grande Euripide, enigmatica, barbarica, celebrazione del dio del teatro e della sua ambiguità e quindi soprattutto rito nel rito. Un testo adatto agli spazi aperti, dove convogliare il ribollire viscerale di energia e ricreare il brivido del sacro. Lo spazio del Palladium non è certo l’ideale, e l’effetto che se n’è ricavato è di compressione e di perdita di potenza, riduzione grottesca e a tratti carnevalesca. In altri luoghi della tournée gli spettatori hanno potuto forse meglio comprendere il gioco delle luci psichedeliche, mirate a ricostruire le pareti claustrofobiche di una stanza mentale, in cui si aggirano le figure nere del nostro inconscio.

Naturalmente, in spazi diversi lo spettacolo deve cambiare forma, ma l’arte sta nel saper mantenere, seppure variata, la magia, e questo respiro al Palladium non si è sperimentato. Il pubblico lecchese però è generoso in applausi, soprattutto quando un attore espone il cartello “No war”.

Gilda Tentorio