RELIGIONI: LA MEDITAZIONE
DI DON GIOVANNI MILANI.
DOMENICA DETTA DEL PERDONO

Anche questa domenica dopo la scorsa, secondo l’antico, è ovvio introduca alla quaresima imminente con questo titolo che è evidentemente tema: il perdono. Ce ne è favorita la riflessione dal ritaglio parabolico del vangelo di Luca.

La contrapposizione dei personaggi, non può essere più divaricata: l’uno, un fariseo stimato ed osservante (fin troppo); l’altro un pubblicano, collaboratore degli oppressori romani
nell’odioso mestiere d’angariare la borsa con gabelle e tasse.

Pure entrambi salgono: Gerusalemme con il tempio erano su, eminenti (non solo fisicamente) a pregare. Là, nel cortile d’Israele, volti verso il “santo”, la cella dell’Arca dell’alleanza, l’uno più innanzi, l’altro, tanto mortificato dal proprio sentire interiore più che dal diffuso livore sociale, sta a distanza finanche fisica, sentendosi quasi indegno di prossimità al sacro.

Il fariseo prega in piedi: la positura classica di preghiera (ancor oggi dovrebbe rimanere
il corretto atteggiamento liturgico). Luca però, rimarcando, sottolinea il porsi con tutta la
sicurezza, cui aggiunge altra ambiguità: “pregava così tra sé (πρὸς ἑαυτὸν); quello starsene “tra
sé” (in piedi) dà segno del distacco altezzoso dagli “altri uomini”.

Anche la sua preghiera – pone sì, il ringraziamento nella parola – ma è piuttosto lode ed
ostentazione di sé, del proprio pio (?) agire, per soprammercato con giudizio sprezzante degli
altri; esibisce orgogliose osservanze molto oltre obblighi e prescrizioni religiose: la decima
anche su quanto ne sarebbe libero, i ripetuti digiuni.

Ben diversa la preghiera dell’altro. Il poveretto, costretto dal suo mestiere all’impurità
del contatto coi pagani, sentiva sulla pelle il disprezzo dei correligionari, non sapeva altro che
invocare pietà battendosi il petto, senza – l’avrebbe forse potuto? – avanzare scusanti. Mette
nella preghiera la propria condizione, la propria umiliazione e chiede solamente clemenza
invocandola dal Signore.

Il giudizio, l’insegnamento marcato (“io vi dico”) è ben limpido, ci è chiarissimo a favore
dell’atteggiamento interiore tanto trasparente nelle due descrizioni.

L’immediato insegnamento sulla preghiera, sul nostro rapporto con Dio, è di mettere lui al
centro. Ma subito – luminoso dal primo esempio del fariseo – a non giudicare gli altri; ancor
meglio, a non credere, guardandosi attorno, poter trovare nelle fragilità altrui, giustificazione
di sé. È l’insegnamento già posto nel proposito della parabola: “per alcuni che avevano l’intima
presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”.

Ce n’è da riflettere! Innanzitutto “sull’essere giusti”. Il Signore dà per giustificato il
pubblicano che ci è così posto ad esempio, benché quanto possiamo notare (e meglio siam invitati a considerare) non è dato da pratiche, né morali, né religiose: tutta l’esemplarità sembra uscire dall’atteggiamento di umiltà: non dalle opere.

Gesù ci dice, c’insegna, a lasciare i confronti. Credo ci sia anche di più, c’inviti alla
convinzione umile di se stessi. Non è facile specie quando si è favoriti – certo, pur con il nostro
impegno – di una vita piana: pratiche religiose in prassi positive ed abituali. È facile sentirci a
posto, in un atteggiamento che è piuttosto del cittadino diligente che ha pagato le tasse, non
proprio del cristiano che è figlio per grazie ed ha ricevuto in dono fede e salvezza.

Is 54,5-10 Ti riprenderò con immenso amore, dice il Signore che ti usa misericordia. Rm 14,9-13 Non disprezzare il tuo fratello. Cristo è il Signore dei morti e dei vivi. Lc 18,9,14 Il pubblicano e il fariseo.


Don Giovanni Milani